lunedì 4 ottobre 2021

D'autunno il ciclamino selvatico 'ombelico della terra'


Stilizzato e elegante Cyclamen purpurascens, il ciclamino selvatico insediatosi da un bel po' d'anni nel nostro giardino in collina, anche quest'anno, incurante della pandemia, è fiorito con la solita abbondanza annunciando l'imminente autunno che, seppur solatio, è la stagione che dà l'addio alla luce.

Alto poco più o poco meno di dieci centimetri, è una bulbosa perenne molto rustica non poi tanto diffusa e perciò protetta in queste zone prealpine e montane, unico delle tre specie presenti in Italia dove cresce allo stato spontaneo così come nel versante francese. Apprezzato per la leggiadria delle forme ed il delicato profumo, il Ciclamino trae il suo nome dal greco 'kyklos', cioè cerchio o tutto ciò che tondeggia, per la forma globosa del tubero e delle foglie cuoriformi verdi variegate di bianco, nonché per i peduncoli lievemente ricurvi che, a fine fioritura, si arrotolano a spirale agevolando l'interramento dei semi nel suolo. Mentre 'purpurascens' si riferisce al color carminio dei peduncoli fiorali e dei tipici fiori rosato-scuro color 'ciclamo'.

Anche detto C.Europaeum, della famiglia delle Primulacee, popolarmente noto come Ciclamino delle Alpi laddove trova il suo habitat ideale nei boschi misti di querce, faggi, carpini e betulle o nei cespuglieti, in luoghi erbosi purché freschi su terreni leggeri all'ombra di felci e altri arbusti.

In Val Maira, da agosto a settembre, il bellissimo fiore si espande lungo il ben segnalato 'Sentiero dei ciclamini', meta di turisti italiani e stranieri, che partendo da Macra attraversa borgate montane dai pittoreschi nomi evocativi di antichi passaggi occitani di mercanti, predicatori e pellegrini. Qui il Ciclamino purpureo cresce endemico all'ombra dei faggeti, fin oltre i mille metri in un paesaggio che val la pena di percorrere anche per altri tesori artistici e storici e, sempre in tema naturalistico, per scoprire sia il vischio che la profumata lavanda selvatica, biodiversità da non perdere. Ovviamente non per esserne predatori ma per apprezzarne in loco fragranze e colori, magari fissandoli in immagini.

I Romani chiamavano il tubero del ciclamino 'umbilicus terrae', 'tuber terrae' e 'rapun porcinum' da cui il popolare nome di 'panporcino' giunto fino ai nostri giorni in quanto cibo prediletto dai maiali che non ne patiscono la tossicità come accade invece ai pesci cui viene dato come esca tossica.

Mutatis mutandis, esso veniva altresì utilizzato nella preparazione di dolci afrodisiaci così come si consigliava venisse indossato, allo stesso scopo, prima di coricarsi. Già Teofrasto, nel terzo secolo a.C., l'avrebbe citato come stimolo alla sessualità per facilitare l'atto del concepimento. Per contro nelle campagne, fin quasi al secolo scorso, veniva usato come abortivo. Tutto ciò, secondo le teorie analogiche, grazie alla forma 'uterica' del fiore i cui boccioli, si diceva, alleviassero le afflizioni di cuore.

Sempre col tubero si preparavano in passato unguenti e linimenti per svariate applicazioni curative.

Nel XVII° secolo veniva indicato per cicatrizzare la pelle butterata dal vaiolo e per restituire il colore rosato ai malati di itterizia. Nell'erbario di Tessalo (XV-XVI secolo) rifacimento di un'opera più antica, si legge che il massimo effetto terapeutico si ottiene raccogliendolo nel periodo in cui il Sole entra nel segno del Leone, pertanto, nonostante la fioritura autunnale, viene annoverato anch'esso tra le 'piante del Solstizio'.

Catalogato tra le piante velenose, viene usato assai raramente in fitoterapia e solo in dosi omeopatiche abbinandolo ad altri vegetali, mentre la medicina popolare nei secoli passati spesso se ne serviva come purgante o vermifugo.

Si pensa che il ciclamino si sia naturalizzato dopo l'avvento della floricoltura mentre gli antichi testi parlano di esso confermandone la presenza endemica sui nostri territori molti secoli prima di tale evento.

Il significato simbolico attribuitogli nel vocabolario floreale non è tra i più desiderabili trattandosi di un segno di 'scoraggiamento' piuttosto che di 'amabilità senza pretese'. Forse a causa dei suoi fiori flessi verso il basso, mai rivolti alla luce del sole, che conferiscono alla pianta un aspetto riservato e un po' triste, poco promettente per gli innamorati.